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Di Trilussa, della Mountain Bike e della Perseveranza
A Roma i palazzi parlano. O forse sarebbe meglio usare il passato per questa frase: parlavano. Era infatti uso in passato incidere dei motti sulla facciata delle costruzioni, frasi che indicavano l’attitudine di chi l’abitava, del costruttore o del progettista. Alcune volte si trattava invece di un invito morale, trascritto per i passanti e magari in latino. C’era un palazzo sulla via Casilina, lungo il tragitto ferroviario prima di entrare a Roma e arrivare alla Stazione Termini che riportava una frase di Trilussa, un’indicazione alla perseveranza nelle proprie azioni che recitava: “Se insisti e resisti raggiungi e conquisti”.
Al principio, le prime volte che mi era capitata sotto gli occhi, mi era sembrata una di quelle frasi retoriche, nello stile del ventennio fascista. Del tipo “Molti nemici molto onore” o roba del genere. Ma giorno per giorno, entrando a Roma - da bravo pendolare tutte le mattina con il treno per arrivare a lavoro e guadagnarmi quella che dalle nostre parti si chiama “Stozza” - quella frase è entrata poco a poco sempre più dentro di me fissandosi. Un piccolo cristallo incastrato fra cuore e cervello. Perchè sarebbe banale e riduttivo racchiudere il significato di queste frase di Trilussa solamente come un invito a continuare indeterminatamente in un’azione. Il secondo verbo della frase è infatti qualcosa che non entra affatto con il perseverare. Il resistere infatti sembrerebbe qualcosa che vada contro, che faccia attrito con la vita e il raggiungimento di un risultato. Invece, senza la resistenza alle brutture della vita ad esempio, non avrebbe senso insistere con determinazione per il raggiungimento di un obiettivo. Ogni istante dobbiamo resistere a quanti ci vorrebbero differenti, a quelli che vorrebbero imporci altri obiettivi che non sono i nostri, che non coincidono con quello che è il nostro sogno, il nostro ideale, la nostra piccola etica conquistata giorno per giorno, pagata con un costo che abbiamo deciso di accettare, volenti o nolenti. Quel “resisti” è la condizione essenziale senza la quale l’insistere non avrebbe alcun senso anzi, sarebbe simile solo all’inebetito procedere di un bovino condotto verso il macello. E’ la resistenza alle forze contrarie che riesce a dare forza all’insistenza, che riesce a sostenere quella determinazione che alla fine ci farà avvicinare al risultato sognato, all’obiettivo agognato. In montagna, come nella vita, resistere alla fatica, agli ostacoli e alle difficoltà sarà l’unica chiave per arrivare alla fine del percorso. Eppure questa è un concetto che nella nostra società non è molto popolare. Sarà che la resistenza, per essere forte e riuscire a sostenere adeguatamente l’insistenza, deve avere delle basi certe, fondate su idee e considerazioni precise. Il contrario esatto di quanto richiesto dal nostro mondo: meno idee l’individio avrà più sarà facile guidarlo nella massa.
Tornato dalle ferie, ho cercato ancora su quel palazzo della Casilina la frase di Trilussa, ma a dire il vero non sono riuscito a trovare più nè la costruzione nè la scritta. Sembrano entrambe scomparse. Non credo sia crollato l’edificio. Più probabile che una ristrutturazione abbia cancellato con una mano di vernice quella che poteva sembrare una frase oramai anacronistica. Di questi tempi è più facile affidarsi al flusso del fiume dell’omologazione che nuotare controcorrente. Cosa che comunque d’altronde è sempre stata.
Ieri ero in mountain bike. Finalmente, dopo tanto tempo, sono riuscito a riprende i miei blandi allenamenti in vista delle future uscite montane in bici, a piedi, di corsa, arrampicando o sciando (quando arriverà la neve). Come sempre, tempo rubato alla vita, ai figli, alla moglie e ad altre mille cose. Tempo “risicato” quindi da sfruttare al massimo per poco che sia. Ero su un itinerario ad anello: una discesa seguita da un lungo falsopiano e poi da una ripida salita che mi riportavano al principio. Da ripetere quanto più potevo nello scarso tempo a disposizione. Durante la salita, decisamente erta, faticavo e scalavo le marce della bici passando a rapporti sempre più bassi. Dolevano i polpacci e anche un po’ la schiena dalle vertebre sempre più acciaccate. La tentazione era di abbassare ancora i rapporti per arrivare al rampichino e al fatidico 1/1. Invece mi sono accorto che, nonostante i dolori e l’affanno, godevo (concedetemi questo termine) a tenere duro, a provare a far girare ancora la pedivella senza azionare il cambio, provando a salire i tratti più ripidi senza far deragliare la catena sulle ruote dentate più piccole. Perchè questo era gustoso ed era l’unico modo per dare sapore a quell’uscita solitaria in bici. Più della divertente e veloce discesa che sarebbe seguita.
E’ stato in quel momento, come spesso mi accade in momenti simili, che quel cristallo incastrato fra cuore e mente ha mandato un bagliore luminoso. E’ stato in quello stesso momento che, quasi come un mantra, mi è salita alle labbra ancora quella vecchia frase oramai cancellata da quel palazzo su via Casilina.
N.B.: qualche giorno dopo la pubblicazione di questo articoli, un lettore mi ha contattato per avvisarmi che la scritta sul palazzo della Casilina ancora esiste. Evidentemente, il sonno della mattina mi serra fortemente ancora le palpebre mentre viaggio sul treno che entra a Roma.
giovedì 20 agosto 2015