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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Alberto Sciamplicotti


VITO

“L’ultima volta che ho sentito Vito è stato il giorno prima che morisse” mi dice Pierluigi Bini celando a fatica uno sguardo di malinconia, “una volta all’anno si ricoverava all’ospedale di Rocca Priora, quello specializzato nelle malattie dell’apparato respiratorio. Aveva una grave forma di insufficienza ma, anche se la cosa non gli impediva di scalare, ogni tanto doveva fare quello che lui chiamava scherzando ‘un tagliando di controllo’, come per la revisione periodica delle automobili. Diceva che tutti quei problemi ai polmoni erano un regalo della guerra di Russia, di quando era rimasto chiuso con l’esercito italiano nella sacca del Don, circondato dalle truppe sovietiche. Era lì che aveva anche perso l’alluce di un piede.”

Fra le mani Pierluigi ha una penna. Le dita giocano veloci con lo stilo di plastica trasparente non riuscendo a stare ferme. Rimane un momento in silenzio, prima di riprendere lentamente il suo racconto.

“A Rocca Priora quella volta era tutto pieno e fu dirottato verso un altro ospedale giù a Roma. Ci sentivamo per telefono, come tutte le volte in cui durante il giorno non ci si era potuti vedere. Era normale per me cercarlo spesso, lo avevo conosciuto più di vent’anni prima negli anni ‘70, quando non avevo nemmeno quindici anni. Di solito era un turbine di parole, quella sera invece lo sentii stranamente silenzioso tanto che gli chiesi cosa avesse. ‘A Pierluì’ mi rispose triste, ‘mi sa che questa volta non c’è tagliando che tenga. Mi sa tanto che da ‘sto ospedale non ci esco con le gambe mie. Viemme a portà via’. Rimasi interdetto. Anche se aveva passato i settanta anni di età, per me la morte di Vito era una cosa che non poteva stare né in cielo né in terra: una cosa inverosimile insomma. Cercai di tranquillizzarlo e gli dissi che avrei trovato il modo di farlo trasferire a Rocca Priora, dove si fidava maggiormente di medici e infermieri. Il giorno dopo, stranamente, il lavoro mi occupò a tal punto che benché avessi ottenuto telefonicamente la promessa per lo spostamento, per la prima volta dopo tanto non riuscii a trovare un attimo nemmeno per chiamare Vito. Quando lo feci, il giorno seguente, mi rispose un’infermiera che senza tanti preamboli mi disse: ‘il signor Vito Plumari è deceduto la notte scorsa’. Poi chiuse la comunicazione senza darmi altre spiegazioni. Ero sconvolto, così scioccato che non andai nemmeno ai funerali. Per me la morte di Vito era una cosa che continuava a essere impossibile e che come tale non era quindi mai successa.”

Spengo il registratore sul quale sto raccogliendo l’intervista. Gli occhi di Pierluigi guardano fuori dalla finestra, inseguendo ricordi e fatti ormai lontani nel tempo. Strana coppia che dovevano essere lui e Vito: un ragazzino poco più che adolescente, preso fin nel profondo dell’anima dal demone dell’arrampicata, e un vecchio pieno di stranezze e con un pessimo carattere. Pierluigi aveva iniziato ad arrampicare con Vito a nemmeno quindici anni, eppure in poco tempo era diventato uno dei più forti alpinisti italiani. La sua traccia, nel grande libro della storia dell’alpinismo, l’avrebbe incisa a chiare lettere attraverso le ripetizioni a tempo di record delle più difficili vie delle Dolomiti, ma ancor di più con le innumerevoli prime solitarie. La più importante era stata quella della via dei Fachiri alla Cima Scotoni, ma tante erano state anche le nuove vie che aveva aperto e tutte con un approccio e una mentalità decisamente avanti con i tempi. Vito, durante quegli anni di scorribande dalle Dolomiti all’Appennino del Gran Sasso, era stato la fedele ombra di Piero. A suo modo però era stato anche un personaggio, impossibile da dimenticare una volta conosciuto.

E’ difficile ricostruire coerentemente la sua storia. Anche se Vito non ha mai fatto mistero di nessuna fase della sua vita, tutto ciò che narrava assumeva sempre un tono epico e con una grande componente picaresca. Lo stesso suo modo di essere, estremamente lontano da qualunque schema precostituito e squisitamente, ma anche tremendamente, spontaneo, ne rendeva spesso problematica la convivenza. Nei rifugi sulle Dolomiti, al Tissi come al Vazzoler o al Paolina, non era strano vedere il gestore implorare il giovane Bini affinché intervenisse per placare Vito. Era solito infatti tormentare gli altri clienti, alpinisti e escursionisti, con le cronache delle salite fatte dal suo amico. Il problema era che questi resoconti venivano declamati ad alta voce al centro delle sale da pranzo, e se in quel momento Pierluigi era impegnato su qualche parete a portata di vista, lo zelo di Plumari arrivava a trascinare gli sventurati che incontrava fuori dal rifugio per “ammirare lo spettacolo incredibile dell’amico mio Pierluigi che sale come fosse un gatto e che proprio in questo momento sta superando un trattino un poco difficile, con sotto un vuoto portentoso che se dovesse cadere nemmeno con il cucchiaino lo potrebbero raccogliere. Però per fortuna adesso ha appena preso un ap`piglio che pare un’orecchietta che ci si tira su e supera un tettuccio che potrebbe dare non pochi problemi a tutti ma non a l’amico mio Pierluigi che spesso arrampichiamo insieme e siamo, nemmeno si potrebbe dire inseparabili, ma forse più che due amici.”

Inoltre, a complicare la comprensione dei soliloqui di Vito, oltre a una dialettica estremamente sgrammaticata, interveniva un difetto di pronuncia che faceva sostituire alla lettera f la lettera p, con risultati criptici facilmente intuibili.

In quella che sembra sia stata la sua prima vera arrampicata in montagna, percorse da solo il lungo sperone sud-sud-est del Corno Grande al Gran Sasso. Dopo essere arrivato in vetta, scese per il ghiacciaio del Calderone verso il rifugio Franchetti. Era ormai notte avanzata quando la guida alpina Pasquale Iannetti, responsabile in quel periodo della struttura, lsentì dei rumori provenire dall’esterno. Sulla porta in metallo si sentivano come dei leggeri ticchettii. Il rumore si ripeteva insistentemente, ma tutte le volte che Iannetti andava ad aprire l’antina superiore della porta per vedere chi o cosa fosse, non scorgeva mai nessuno. Alla fine, spazientito, scoprì che proprio davanti all’uscio, sdraiato in terra esausto, c’era Plumari che in silenzio, armato di una piccola piccozza di quelle che si vendono come souvenir nei luoghi di villeggiatura montana, cercava di attirare l’attenzione. Era vestito con un vecchio paio di pantaloni militari e intrecciata intorno al busto aveva una corda nuovissima, comprata per l’occasione. Trascinato dentro il rifugio, venne steso su un tavolaccio e rianimato con un cordiale poi, visto che le condizioni del ‘sopravvissuto all’impresa’ non erano preoccupanti, Iannetti spense le luci e andò a dormire. La mattina seguente trovò Plumari fuori del rifugio, circondato da un’intera pattuglia di Boy-scout, schierati a semicerchio davanti a lui, intento raccontare condita di mille particolari roboanti l’epica avventura della giorno precedente.

Nonostante l’età avanzata, i problemi respiratori, la mancanza di un alluce perso in seguito a un congelamento durante la guerra di Russia, e i tremori al capo e alle mani dati dal morbo di Parkinson, Plumari arrampicò costantemente fino a poco prima di morire. Di solito lo faceva con il suo fido amico Pierluigi, a volte invece con qualcuno degli altri giovani alpinisti romani. Certo, sulle Dolomiti non andava quasi mai da primo di cordata, ma salì ugualmente innumerevoli itinerari di sesto grado; pur non essendo veloce, una volta con Luca Grazzini, un giovane Accademico della sezione del Cai di Roma, salì una impegnativa via in Dolomiti. Pierluigi Bini, ancora oggi a distanza di anni, la ricorda come una bella impresa, soprattutto per Grazzini che dovette sopportare l’ultrasessantenne Vito per tutta la salita. Anche per Vito fu una bella impresa. Arrivò al rifugio con, come diceva nel suo buffo intercalare, “una stanchezza a percentuali incalcolabili, forse all’ottantanove o al novanta, ma anche al novantuno per cento”. Il gestore e Grazzini lo trascinarono letteralmente in branda, dove iniziò a russare all’istante. Per tutto il giorno seguente vagò poi per il rifugio, fra l’ilarità dei presenti, nella stessa tenuta con cui si era addormentato: l'imbraco ancora indosso, moschettoni e materiale vario appeso e un paio di cordini e una fettuccia a tracolla. Probabilmente sul volto aveva la stessa faccia stralunata di quando aveva capito di essere uno dei pochi soldati italiani sopravvissuti al massacro della sacca del Don.

Lo scrittore, giornalista, alpinista e speleologo Andrea Gobetti, il nipote del famoso statista italiano Piero, affascinato dal personaggio e dalle possibilità offerte da una piccola telecamera 8 Hi Band, girò un filmato intervista su Vito. Insieme a Bini si recarono ad arrampicare sulla strapiombante parete del Santuario della Santissima Trinità, dove Pierluigi aveva aperto diversi itinerari con passaggi molto duri in arrampicata libera e artificiale. Rivedere oggi il video fa un certo effetto. Plumari, carico di tutta la sua vecchiezza sale lungo il muro della gialla parete della Santissima. Ondeggia mentre aggancia una staffa con la sua mano tremolante. Supera un tettino, recupera la scaletta di corda e metallo, la aggancia all'imbraco e riprende a salire fino a giungere alla sosta da cui Bini lo sta recuperando. Anche la testa si muove con il tipico tremolio di chi soffre del Parkinson. Sulla piccola cengia, Gobetti fa alcune domande a Plumari. Nel video l’audio è incerto, distorto e coperto da fruscii e non tutte le parole sono intelligibili. Quello che colpisce è invece l’atteggiamento di Vito, perfettamente a suo agio, come se avesse sempre risposto a video interviste in parete. E’ la semplicità, data dall’incosciente consapevolezza di essere quello che si è, che si manifesta qui nel più puro dei modi. Plumari rispondendo alle domande, non guarda quasi mai verso l’obiettivo. Parla del suo vivere la montagna ma non attraverso il racconto delle salite, descrive invece le sensazioni che prova alla vista di un fiore o di una coppia di camosci. Cose semplici insomma, e mentre il fruscio copre parole che sembrano raccontare della sua amicizia con Pierluigi, raccoglie i piccoli sassi che sono sulla sporgenza rocciosa davanti ai suoi occhi. Li osserva uno ad uno e di tanto in tanto ne getta qualcuno nel vuoto alle spalle scartandolo. Sembra quasi che stia mettendo in ordine fra le cose trovate in un vecchio cassetto a casa. Il video continua con una seconda intervista, realizzata questa volta fra le più tranquille pareti di Sperlonga. Bini sta facendo sicura a Vito, il quale ha appena finito di scalare una delle tante vie della falesia, e lo sta calando. A terra Plumari racconta della sua gioventù, della passione per l’arrampicarsi che unita alla necessità lo portò ad esibirsi come saltimbanco in un circo in Sicilia. Pierluigi, come sempre, scherza su questo particolare.

“Saltimbanco?” domanda avvicinandosi a Vito, mentre il fruscio della pista audio continua a sovrapporsi alle parole, “nel senso che alla scuola dove lavoravi come bidello saltavi sui banchi? Ma la preside non ti diceva nulla?”

“Sempre a scherzare tu!” borbotta Plumari con il capo ondeggiante, “nel senso che pacevo il punambolo in un circo!” aggiunge criptando il discorso con il suo sempre presente difetto di pronuncia.

Fra una battuta e l’altra Bini ha preso in mano il nodo che lega la corda all'imbraco di Vito e pazientemente disfa la lunga sequela di nodi semplici che il suo anziano amico ha fatto seguire al tradizionale otto inseguito. Saranno almeno quattro i grovigli da sciogliere e Pierluigi, dall’alto del suo metro e ottantacinque, è letteralmente piegato in due davanti alla figura di Plumari. Nel frattempo nuove domande arrivano da dietro l’occhio della telecamera: Gobetti continua a intervistare affascinato lo strano alpinista tremolante che, noncurante delle cure del suo più giovane amico, è perso nei racconti dei suoi antichi ricordi. Mentre le immagini del video scorrevano davanti ai miei occhi, non avevo potuto fare a meno di associarle a quelle dei giorni di festa di pochi anni prima, quando mia madre, dopo il bagno, pettinava mia nonna prendendosi cura di lei con la dolcezza che solo i legami di forte amore portano con sé.

Seduti ancora ai due lati della scrivania, continuo ad osservare Pierluigi. Non è difficile credere al suo rifiuto di accettare la morte di Vito. Ancora oggi, quando lui e i suoi amici vanno ad arrampicare, Plumari continua costantemente ad essere presente. Da una sosta all’altra, anche della via più difficile, si chiamano imitandone la voce, i difetti di pronuncia e il buffo intercalare delle sue battute.

Bini posa sul tavolo la penna che ha tormentato fra le dita fino a quel momento. Si volta verso di me e mi dice allegro: “Un anno stavo in Dolomiti al Col di Lana al Pordoi. Arrivarono due vecchi amici e mi misi a parlare con loro, i soliti discorsi che si fanno davanti ai rifugi: quanto vi fermate, quali salite volete fare e così via. Ad un certo punto uno di loro mi fa: ‘Venendo qui abbiamo incontrato un tipo incredibile. Era un vecchietto che saliva lungo la strada che porta verso il sentiero del rifugio. Aveva in testa un cappello di lana, sulle spalle uno zaino di quelli militari pieno da scoppiare, una busta di plastica piena di sedani e cipolle in mano e, sotto un nasone, due baffi bianchi. Trascinava un carrello, di quelli con cui le donne vanno a fare la spesa nei mercati di città, pieno però di corde, chiodi da roccia e attrezzatura da arrampicata: sembrava il rigattiere delle Dolomiti’. Cominciai a ridere. Non riuscivano a capire, finché gli spiegai che avevano visto solamente Vito che saliva verso le pareti all’inizio della sua stagione estiva di arrampicate.”

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