ALBERTO SCIAMPLICOTTI
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EMILIO PREVITALI

Continua l’appuntamento con le interviste. Questa volta la parola va a Emilio Previtali, personaggio del mondo della montagna, legato ad essa dal concetto di avventura che persegue nei suoi aspetti più molteplici: arrampicata, snowboard, corsa, mountainbike, alpinismo sulle grandi cime della terra. Negli anni è stato anche fondatore, nonchè direttore per la quasi totalità delle uscite, della rivista FREE.rider


Qual'è il percorso che ti ha portato ad avvicinarti all'avventura, alla montagna, all'alpinismo, all'arrampicata e allo scivolare sulla neve in tutte le sue forme, dalle due tavole classiche, allo snowboard e di recente al telemark?


Sono andato a sciare e ad arrampicare da sempre, fin da piccolo, con i miei genitori. Mio padre era alpinista e soprattutto sci alpinista, alla vecchia maniera. L’arrampicata sportiva è stata la miccia, la scintilla, l’origine del mio percorso sportivo personale. Andare alla Cava di Nembro ad arrampicare tutti i pomeriggi è stato all’inizio il mio modo di vivere la montagna in modo quotidiano. A quell’epoca l’arrampicata sportiva si chiamava ancora arrampicata di palestra, non aveva una propria dignità, insomma non era qualcosa su cui gli alpinisti investivano del tempo e della fatica fisica per migliorarsi attraverso l’esercizio continuo. Per me invece lo era. Era l’unica cosa che potevo fare per sentirmi a mia volta un alpinista e me ne accorgevo quando al venerdì sera andavo a vedere le serate di Messner, di Casarotto, di Manolo, di Mariacher che parlavano di montagne che parevano lontane anni luce dal mio mondo. Sfinirmi di arrampicata – allora il bouldering lo chiamavamo fare passaggi e traversi - era il modo di sentirmi uno di loro, un climber. Quando arrivavo lì, alle serate e alle conferenze, in sala c’erano sempre gli alpinisti “veri”, quelli accademici della vecchia generazione in giacca e cravatta e anche quelli rotti e stracciati come li hai chiamati tu, vestiti con i primi pile. A me anche questi, rintanati nei loro atteggiamenti ostentatamente anticonformisti, non apparivano tanto diversi dagli altri. A me e a Simone Moro, che eravamo i due “bòcia” dell’arrampicata bergamasca, ci guardavano come a due fenomeni da baraccone, due scimmie del circo. Eppure noi non ne vedevamo in giro di gente che si allenava tutti i santi giorni e che si impegnava con metodo e costanza tanto quanto facevamo noi. Forse il dubbio che il metodo giusto fosse il nostro deve essere venuto anche agli altri, perché un giorno in cava è venuto a vedere Renato Casarotto e sui traversi che facevamo noi non riusciva neanche a stare attaccato. La sua invernale alla Gervasutti alle Grand Jorasses l’ha preparata lì, in cava con me e Simone, è venuto tutti i pomeriggi per un mese. Ci diceva che eravamo forti, pensa te. Non voleva che si sapesse in giro, che arrampicava in palestra, lì in cava. Allora nell’alpinismo allenarsi era quasi barare. Lo sci e poi lo snowboard e poi tutte le altre cose sono venute dopo, ma l’origine, la grammatica della montagna e in fondo anche della mia vita l’ho imparata lì, nella semioscurità della Cava di Nembro.


Dopo aver ideato la rivista FREE.rider ne sei stato il direttore fino alla conclusione del progetto: cosa rimpiangi, se qualcosa lo rimpiangi, di quell'esperienza? Cosa ti ha dato invece?


Non sono stato direttore fino alla fine, c’è stato un numero ancora dopo il termine della mia collaborazione. Uno solo e poi niente, ci tengo a precisarlo. Quando penso a FREE.rider fondamentalmente mi vengono in mente due cose: la prima è una sensazione spiacevole, un fastidio, un dolore impossibile da ignorare come ogni volta che penso a una cosa che non c’è più. Un po’ come quando perdi un amico o una persona cara, quella sensazione del tuo pensiero che ricorre a una normalità fatta di situazioni, di momenti, di emozioni, di gioie che sai che non verranno più. E’ una sensazione di mancanza. La seconda sensazione è di distacco assoluto, un senso di calma e di quiete definitiva. Ideare prima e poi lavorare a quel progetto è stata una esperienza strepitosa, non solo dal punto di vista professionale ma anche dal punto di vista umano. Ho dovuto inventarmi – nel senso letterale della parola – ogni cosa: un metodo di lavoro, un sistema per programmare la lavorazione, un elenco di collaboratori, un modo per fare e per costruire la rivista dalla A alla Z. Io mica lo sapevo, all’inizio, come si faceva. Con la rivista e della rivista potevo fare davvero qualsiasi cosa, nessuno dentro la casa editrice si è mai preoccupato di chiedermi niente, di controllare, nessuno ha mai chiesto di contenuti, di programmazione editoriale, di pianificazione. A volte facevo anche degli esperimenti o li provocavo negli editoriali quelli dei piani alti, per vedere se li leggevano, casomai. L’unica cosa di cui si preoccupavano erano i soldi e la puntualità delle uscite. Poi loro mi pagavano a rate due anni dopo, ma quello non era importante. La rivista vendeva, eccome se vendeva, giurnali e pubblicità. Però non l’hanno mai apprezzato, anzi quasi gli dava fastidio. In fondo li disturbava l’idea che uno che veniva da fuori e che lavorava per conto suo – e che se ne andava a sciare o in spedizione quando voleva - per certi versi facesse da solo le stesse cose che loro facevano con una struttura di redazione classica. Ci riuscivo perché c’erano due persone straordinarie intorno a me, Sergio Scaccabarozzi che era il venditore ma in realtà era quello che creava lo spazio e le condizioni a me per lavorare con calma; e Eliana Barbera, l’art director della casa editrice, che mi ha insegnato tutto quello che c’è da sapere in questo lavoro e che lo ha fatto con affetto e con pazienza infinita. La loro amicizia durerà per sempre e questo è bellissimo. L’amicizia con l’editore, beh quella non era strettamente indispensabile, però io come punto di partenza avevo cominciato dal rispetto, quello professionale e quello umano. Con l’ultimo editore della serie – in otto anni l’avvicendamento al vertice della casa editrice è stato continuo - era impossibile parlare di queste cose, in questo senso per essere ricambiato ho dovuto impegnarmi in una battaglia legale. Vinta, ci tengo a dire.


(SEGUE)

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