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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Luigi Cianciusi


PIERLUIGI E IL GENERE UMANO

Quando esco di casa, alle sette, fa freddo. La brinata disegna cristalli di ghiaccio sui vetri delle auto lasciate all’aperto ed una cappa di nebbia nasconde lo stato del cielo.  Ad Avezzano, d’altronde, è questo in dicembre il clima ordinario.

Io però me ne vado a Leano, ad arrampicare al livello del mare, e sul Tirreno è prevista una giornata di sole.

Non perdo tempo e non mi fermo a far colazione. Prenderò un cappuccino a Guidonia dove, è sicuro, dovrò aspettare un buon quarto d’ora prima che Pierluigi sia pronto. Intanto parto alla volta del caldo, delle falesie pontine e dell'’amico che frequento in maniera più assidua.

Meno dieci a Torano, meno quattro gradi a Guidonia. Fa freddo, altroché! Pierluigi, in compenso, è già pronto, in attesa sulla porta di casa. Appena mi vede raccoglie il suo zaino, piccolo e vuoto, e lo sistema nel cofano a fianco del mio, che invece è grosso e pesante. Niente di strano: ormai ho smesso di chiedermi come Piero abbia fatto a fare tutto quello che ha fatto portandosi sempre e soltanto cinque rinvii, un imbraco, un chiodo, un martello che poi lascia in macchina, un piccolo moschettone con ghiera, una felpa leggera e due staffe, o meglio due <stappe>, per dirla con la pronuncia di Vito, il nostro “Vecchiaccio” che è venuto a mancare.

Tutto qui! Nello zaino di Piero non c’è stato mai niente di più e mai niente di meno. Piero procede spedito e tu insegui, gravato dal tuo armamentario. Quando giungi alla base della parete sei trafelato, mentre lui è lì che ti aspetta, ben rilassato, e s’è già preparato. O meglio, s’è messo l’imbraco, perché Pierluigi, uscendo da casa, già calza le sue tradizionali <Superga> e non ha bisogno di altro. Di casco, ad esempio, neppure a parlarne. A Leano, a Sperlonga, ma anche al Gran Sasso o in Dolomiti, non l’ho mai visto diversamente attrezzato.

Se lo giustifico, penso, non mi sento uno sherpa, e quindi mi dico: è normale, l’attrezzatura la porta il secondo! Lui invece mi offre anche i suoi moschettoni e m’invita: “Vuoi andare da primo?”

“Poi vediamo”, rispondo, “Intanto vai tu.” E gli passo il mio materiale.

Tre rinvii, per aggiungerli ai suoi. Prende quelli soltanto. “Mi piace stare leggero”, dichiara, e può permettersi il lusso perché conosce a memoria quanti spit incontrerà ad ogni tiro. Rifiuta i cordini, che attorno al torace gli sarebbero di qualche fastidio e addirittura si toglie la felpa e la lascia alla base.

In effetti, però, il clima è cambiato: si sono fatte le dieci, c’è il sole e la parete riflette il calore.

Pierluigi sta iniziando a giocare.

Alla base della prima struttura, ancor prima che io riesca ad assicurarlo, Pierluigi attacca la <via della placca>. Traversa, insinua le dita in una fessura, si plasma su questa ed è subito fuori. Traversa di nuovo ed arriva alla sosta.

Non c’è stato un momento di stallo o d’inerzia, non s’è avvertito uno sforzo. Il movimento, continuo, è stato così naturale che sembrerebbe impacciato anche un geco che volesse ripetere il tiro.

Io lo so, tuttavia, che non devo farmi illusioni: la scioltezza di Piero non è indicativa, e per passare dovrò comunque impegnarmi. Difatti, l’uscita dalla fessura è difficile. Mi fermo, e siccome lui è lì vicino gli chiedo istruzioni: “Che faccio?”

“Alà...tà!”, mi risponde, e ridiamo. Era Vito, una volta, ad usare questa espressione quando voleva spiegare a qualcuno che, per passare, bisognava fare quei due movimenti veloci (“Alà...tà”) e sperare.

Alà...tà, ed arrivo sul terrazzino. Pierluigi mi fa un complimento: parlando a se stesso, finge che al posto mio ci sia Vito e, imitandolo, dice: “Ca pare che se passa, èh Pierlui’?!” Dandosi un sacco d'arie, Vito avrebbe detto così per intendere “Guarda come sono stato bravo!” e Pierluigi, ripetendo per me quella frase, mi vuol lusingare.

Intanto, io mi autoassicuro e Pierluigi completa il lavoro legandomi anche con un barcaiolo. Fa sempre così e la cosa, all’inizio, non mi piaceva. <Piero crede>, pensavo, <che io non sia capace di badare a me stesso>, ma poi ho visto che il gesto è automatico e che sempre, anche lui, quand’è in sosta si lega a due punti.

Un altro tiro, un tratto di ghiaia e roccette, e siamo al diedro di attacco della via dello Spigolo.

In una nicchia è nascosto uno zaino. C’è qualcuno che arrampica, allora, oltre noi! Eppure al parcheggio, al casello che vediamo dall’alto, c’è ancora soltanto <Enterprise>, la mia nuova vettura. Prima, quando si veniva con Vito, c’era sempre la sua <Celestina>, la storica Opel, ed è uno sproposito, forse, che la mia Jeep abbia anch’essa un suo nome.  Comunque, <Enterprise> è ormai battezzata e la cosa mi piace parecchio.

Nella nicchia lo zaino, ma intorno non si vede nessuno.

“Avranno lasciato la macchina altrove”, dice Piero, “Comunque, sono arrivati molto prima di noi.”

Pierluigi riprende a tirare. Passando a sinistra, supera in libera il primo strapiombo. Si tiene a un appiglio e, alà tà, fa un saltello. Una pedula in placca, l’altra che approda con precisione sull’unico piccolo appoggio. Un moschettone compare nella mano sinistra e si aggancia al prossimo chiodo. Quando sta per chiudere il tiro, Pierluigi si volta a guardare. “Le porti le stappe?”, mi chiede. Le porto. E le uso, a differenza di lui, quando si tratta di superare un tettino all’uscita del secondo tiro di corda.

E’ allora che vedo, a destra, su una via parallela, i due dello zaino. Si trovano, più o meno, all’altezza in cui siamo noi, ed il capo cordata sta procedendo con attenzione. Anzi, ad esser sinceri, sta salendo proprio con calma.

Li saluto alzando un po’ il braccio destro. Il secondo, che sta assicurando, mi vede ma non mi risponde. Raggiungo Piero e, dalla sosta, ripetiamo il saluto, questa volta all’indirizzo del primo. Niente da fare, nemmeno lui ci considera.

Comunque, con altri tre tiri completiamo la via e ci spostiamo sull’altro versante per ridiscendere in doppia.

Adesso fa freddo di nuovo. La forcella posta fra la torre e la Punta Giovanna è tutta in ombra e Pierluigi, che aveva abbandonato la felpa, vuole tornare velocemente alla base.

Poiché è più assolato, scegliamo il percorso più lungo, quello che costeggia da Sud Torre Elena, e così passiamo al di sotto della cordata che avevamo superato in salita. I due sono lì, in piena parete, e sembra che abbiano ancora davanti almeno due tiri di corda.

Non ci fermiamo. In pochi minuti siamo ai piedi dell’avancorpo, ci copriamo e mangiamo due formaggini, i miei formaggini. Come al solito, ho portato anche mandarini, acqua e biscotti, e Pierluigi mi aiuta ad alleggerire lo zaino.

“Siamo andati veloci!”, mi dice.

“Sette tiri, in totale”, rispondo, e gli faccio notare: “Intanto, quei due stanno ancora in parete!”

Lui non raccoglie. E’ in buona fede, come sempre d’altronde. Specifica: “No...voglio dire...io lo spigolo lo sapevo a memoria, ma anche tu sei andato veloce.”.

Mi schernisco: “E bèh, da secondo...”. Poi lo stuzzico ancora: “Quelli, però, t’hanno visto giusto passare! Che ne dici, si saranno straniti?”

Prende tempo. E’ preoccupato: “Ma allora…me sa che hanno inteso i saluti come ’na presapelculo.”

“Facile”, dico, e rido, anche se vedo che lui è dispiaciuto. Sembra che Pierluigi addirittura si dolga d’esser stato veloce.

“Certo…”, riflette, “…il genere umano è curioso!”

Lo correggo: “Dirai permaloso!”

“E’ strano…è curioso”. Si fa riflessivo e ripete ”Certo che…il genere umano...”

“E daglie co sto genere umano!”, scherzo io, “Che voi di’, che sei Dio? Tu sei Dio e noi siamo il genere umano?”

La reazione è imprevista. Io credevo ridesse e si atteggiasse un po’ a padreterno, e lui invece arrossisce. E’ visibilmente mortificato e la risposta gli si ingarbuglia: “Ma no...è che...è’ che certe volte il genere umano…in generale…no questi due.”

Non trova parole adeguate e proprio la necessità di spiegarsi gli impedisce di esprimersi più chiaramente. E’ impacciato e farfuglia: “Volevo dire che…a me piace se qualcuno va forte…mica rosico, io…Io Dio? Ma se arrampico sempre con tutti!”

Ha ragione: se c’è qualcuno che è riuscito a mantenersi modesto questo è proprio il mio amico.

E continua: “Chi se la prende per una cazzata...chi vive solo pe’ dimostrasse...chi campa d’invidia...questo volevo di’! Ma mica so’ il Padreterno...perché, secondo te me la tiro?”

“Hai frainteso”, rispondo.

“Ma guarda, davvero…io intendevo che la gente…mica solo in montagna…”

“E dai!”, provo a dire, “Era solo per sfottere un po’ quelli là. Lo sanno tutti che non te la tiri.”

Tanto basta. Piero conferma la sua buona fede e l’equivoco è già chiarito: “Ah, era per sfotte?”, adesso ride, “E allora sai che ti dico? Che voi umani siete strani parecchio! E sai perché?”

“Perchè?”, lo assecondo.

“Perché ROSICATE!”

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