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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Emilio Previtali


SELVINO IN 30’

(il testo è stato letto il 24 febbraio scorso a Nembro, al Teatro Modernissimo, in occasione del Premio Sergio e Marco Della Longa 2012)


Buonasera a tutti, la mia presentazione credo sia un po’ diversa dalle altre però secondo me può andar bene lo stesso, almeno spero. La leggerò. Sullo sfondo abbiamo deciso di mettere un po’ di nuvole che passano. Così. Nel caso se vi annoiate vi guardate quelle. Sono nuvole di novembre sopra la Presolana. Possiamo farle partire, grazie.

> parte il video delle nuvole

Poi dopo, tranquilli, vi faccio vedere anche un video e vi racconto qualcosa del Denali, che sarebbe poi il Mc Kinley come lo chiamavano una volta, dove a giugno sono andato a far canali con gli sci da telemark. Ho fatto la cima e sciato nell’Orient Express, e il Rescue Gully. Però prima di tutto ci tenevo a dirvi delle cose del Sergio Dalla Longa, io sono qui per quello. Mettetevi comodi. Del Denali vi parlo dopo.

> Io ho più di 40 anni e nella mia vita ho provato a fare non dico tutti ma forse quasi tutti gli sport che si possono fare in montagna, escluderei solo il bob a quattro e il curling. Ho fatto dalla arrampicata sportiva allo sci alpinismo, dallo snowboard sulle montagne di ottomila metri al telemark, dalle corse in montagna alle cascate di ghiaccio, dalle gare multi sportive alle passeggiate con i miei bambini. Dico anche le passeggiate in montagna con i miei bambini, esatto, ci tengo, che a me piacciono tantissimo e noi tendiamo a dimenticarcelo un po’ tutti in queste occasioni dei premi alpinistici, delle cose più semplici e normali che uno va a fare in montagna tipo appunto camminare sui sentieri con dei bambini, andare a funghi, andare a far castagne o della legna.  Che poi quelle sono le cose da cui siamo partiti tutti, da piccoli, e le cose a cui tutti ritorniamo, da genitori o da nonni, accompagnando nel bosco i nostri figli o i nostri nipotini o i nostri genitori, quando nel frattempo sono diventati anziani. Io in montagna ho cominciato ad andarci così: con mio papà e con gli amici di mio papà, a camminare nei boschi e a fare sci-alpinismo. Andavo con il Tito, l’Arnaldo, Jader, il Toni Morandi. Poi a un certo punto verso i quindici anni in montagna ho cominciato ad andarci da solo, di nascosto dai miei genitori, tutti i pomeriggi. Venivo in Cava qui a Nembro ad arrampicare, che a pensarci bene adesso, andare in Cava non è esattamente andare in montagna. Comunque. Venivo in Cava a fare i passaggi come si diceva allora, la parola bouldering non la usavamo ancora. Al massimo dicevamo a fare i traversi, si andava in cava a fare i traversi, a farsi le braccia, altri semplicemente in Cava ci andavano a farsi, ma va bé, non divaghiamo adesso. La prima persona che ho incontrato in Cava a Nembro, la terza o quarta volta che ci sono andato, è stato il Sergio Dalla Longa. Un pomeriggio verso le due dopo la scuola sono arrivato in cava e c’era una Ami 8 color carta da zucchero parcheggiata con tutte le portiere aperte e della roba di montagna buttata per terra ad asciugare al sole. Io appena l’ho visto il Sergio, stavo spingendo a mano la bicicletta - che io dicevo che andavo con la bici in biblioteca a studiare poi invece andavo in cava ad arrampicare - mi sono sentito saltare il cuore in gola e mi sono detto: non andrà mica a dirlo a mio papà, questo qui, che vengo in Cava invece di andare in biblioteca? Sergio arrampicava benissimo, lentamente, arricciando le dita intorno ai appigli più piccoli in un modo che non avevo mai visto fare prima. Aveva indosso dei pantaloni verdi di cotone, di tessuto grosso come se fosse un toni o una tuta da lavoro e una maglietta di acrilico rossa. Un abbinamento che faceva rabbrividire, pantaloni verdi, maglia rosso bandiera. Io mi mettevo le cose che mi comprava mia mamma, comunque per andare ad arrampicare avevo un maglione di lana blu e un paio di pantaloni della tuta azzurri , con tre righe sui lati tipo Adidas – che non erano Adidas, poi - e delle scarpette San Marco gialle e nere color salamandra. Ero vestito come uno che avevo visto sulla copertina di una Rivista della Montagna – Speciale Arrrampicata, tale Patrick Berhault che doveva essere uno forte – infatti era uno forte - quindi a regola dovevo essere vestito giusto. Giusto in base a quale regola non lo so nemmeno io, comunque quella lì, per colpa o per merito del Sergio della Longa che era vestito da operaio di rosso e di verde e che non aveva un paio di San Marco gialle come le mie e come quelle di Patrick Berhault  sulla copertina della Rivista della Montagna ma un paio di EB stracciate, è stata la prima volta che in vita mia mi sono chiesto quali erano le mode, le consuetudini, le convenzioni, le regole che volevo rispettare? Le mie regole, dico? Quali erano? Quali volevo che fossero? Quale era la cosa giusta da fare e quale era quella sbagliata? E poi: chi le faceva le regole? chi le doveva fare? Il CAI? La Rivista della Montagna? I miei professori? La mia scuola? Mia mamma? Patrick Berhault? Il Sergio Dalla Longa? Per andare ad arrampicare, ad esempio, bisognava per forza vestirsi di blu e di azzurro o con la camicia Carlo Mauri come mio papà o ci si poteva vestire come si voleva, tipo il Sergio? Non me lo ero mai chiesto, prima. Io me le dovevo fare da solo, le mie regole. Era ora di incominciare.

Che era il Sergio Dalla Longa lo avevo capito subito anche perché aveva un paio di scarpe senza calzini e lo avevo già incontrato con mio papà una volta a una serata alpinistica alla Borsa Merci di Bergamo, dove un tempo il CAI faceva le sue serate  - e avevo notato che anche quella sera lì portava le scarpe da ginnastica, senza calzini. Mio papà mi aveva detto “Quel ragazzo lì è il Sergio dalla Longa”. “Quello senza calzini?” avevo chiesto? Mi aveva fatto segno di sì con la testa.  A scuola alla Casa dello Studente XXIII dove andavo io a fare le medie mi avevano sempre detto che le scarpe senza calzini assolutamente non bisognava portarle, che poi i piedi sudavano e le scarpe puzzavano. Più che altro, a parte i divieti, a me tutte le volte che era capitato di mettermele senza calzini le scarpe da ginnastica e di tenerle su per un po’, mi dava un fastidio pazzesco al piede, che solo a pensarci, anche adesso, me lo sento già sudare, il piede. Non lo so il Sergio come facesse a resistere. Che quello di mettersi le scarpe da ginnastica senza calze era un po’, come dire, un suo timbro di fabbrica, questo l’ho capito dopo quando sono diventato suo amico, quando sono diventato più grande, un po’ di anni dopo e l’ho conosciuto bene. Quel giorno lì in cava, il primo giorno che lo avevo incontrato, non mi aveva dato molta confidenza. Mi aveva salutato e mi aveva guardato. Non mi aveva chiesto niente, neanche il nome, però io avevo detto “sono venuto ad arrampicare”, sembrava una giustifica perché ero lì. Lui si era sfregato il palmo delle mani e aveva fatto segno di si con la testa e aveva buttato fuori il fiato dalle narici facendo un rumore strano che faceva sempre lui e che mi ricordo. E che sono sicuro che si ricordano anche quelli che conoscevano bene il Sergio. L’aria fuori dal naso. Quel gesto. Poi si era avvicinato al muro del pianto, quella placca verticale che c’è sulla destra appena arrivavi in Cava che aveva un passaggio bellissimo in traverso sulle tacchette, andando verso sinistra. Tacchette piccole. Non faceva nè caldo nè freddo quel giorno, era una bella giornata di primavera verso la fine della scuola, me lo ricordo come se fosse adesso. Lui arrampicava senza magnesite. Io gli chiesi come mai arrampicasse senza magnesite visto che la usavano tutti, inclusi Patrick Berhault che avevo visto sulla rivista, la magnesite e lui non mi rispose. Non disse niente proprio. Alzò le spalle e inclinò la testa di lato. Poi si rimise ad arrampicare. All’epoca la magnesite era un po’ una novità, usarla era un po’ un gesto di ribellione nei confronti del vecchio modo di arrampicare. Allora anche io quel giorno lì arrampicai senza magnesite, che mi sembrava di non portargli rispetto al Sergio Dalla Longa a tirare fuori il sacchetto della magnesite dallo zainetto e legarmelo in vita davanti a lui, non mi sembrava il caso proprio. Che poi io ero un pivello e del traverso non riuscivo neanche a farne metà, tra l’altro. Poi a un certo punto quel pomeriggio, dopo un po’, il Sergio mise tutta la sua roba asciutta dentro a uno zaino e andò via. Io restai lì a provare e riprovare quel traverso e poi nei giorni e nei mesi seguenti a provare anche tutti gli altri passaggi che c’erano dentro alla grotta. Poi dopo rimasi sempre a seguire le cose che il Sergio faceva in montagna. Allora non c’era internet, le sue notizie mi arrivavano da altri ragazzi che arrampicavano lì in Cava, per sentito dire, per passaparola. Una volta, un bel po’ di tempo dopo, forse un anno o un anno e mezzo dopo lessi sul giornale che sarebbe andato in spedizione in Patagonia alle Torri del Paine con il Gabriele Iezzi e fecero una presentazione tipo questa qui che stiamo facendo noi qui questa sera in questa bellissima sala, tra noi alpinisti, che sono delle cose bellissime queste qui di raccontarsi delle storie di montagna e bisognerebbe farne anche di più di queste serate, e comunque io ci andai a quella serata a Boccalone. In bici. Ci andai da solo. Rimasi tutta la sera in un angolo della sala ad ascoltare, in ultima fila, poi quando finirono la serata e uscirono tutti e anche Sergio uscì fuori dalla sala, c’era un piccolo rinfresco, ci incrociammo con lo sguardo, io non ebbi il coraggio di salutare. Però Sergio mi aveva riconosciuto e venne a salutarmi. Mi venne vicino. Ciao, mi disse. Ciao. Esistevo. Sergio aveva un giubbino di pile rosso. Io andai via quasi subito quella sera senza partecipare al rinfresco – che mi vergognavo – e tornai a casa presto. Sergio Dalla Longa mi aveva riconosciuto. A me. Il giorno dopo chiesi a mia mamma se mi faceva su un pile rosso uguale al suo, e infatti me lo fece. Uguale. Quasi, uguale insomma.

Il traverso in cava lo avevo provato per settimane, per qualche mese forse, non lo so più per quanto, comunque tanto tempo. Tantissimo. Fatto sta che alla fine riuscii a farlo tutto il traverso e poi anche il ritorno e poi avanti e indietro, sinistra-destra-sinistra senza cadere. E anche altri passaggi mi riuscirono, che prima non mi riuscivano anzi, mi riuscirono passaggi che a quell’epoca non riuscivano proprio a nessuno. Alcuni li ho fatti io, per primo. Li ho aperti io. Io venivo su tutta la settimana in Cava, sempre in bici, tutti i pomeriggi, tutti i giorni. Per allenarmi. Per diventare bravo. Poi una volta, un sabato che pioveva, quando c’erano tutti, davanti a tutti, davanti al Sergio Dalla Longa, al Sandro Fassi, all’Augusto Azzoni, al Vittorio Bergamelli, alla Romilde, al Vito Amigoni e al Camòs e un sacco di altra gente, un sabato che c’era lì perfino l’Agostino da Polenza che aveva appena fatto il K2, li avevo fatti quei passaggi. Davanti a loro. Tutti. Chiudevo i passaggi che loro non riuscivano ancora a fare. Io facevo finta di niente: andavo lì e li facevo. Non lo dicevo apertamente che io li avevo già provati e riprovati i passaggi e che mi allenavo tutti i giorni, in Cava – un anno ci sono andato 292 volte – e che anche a casa dopo la Cava facevo centocinquanta trazioni al giorno tutte le sere. In quell’epoca allenarsi ad arrampicare sembrava quasi che fosse come andare a rubare in chiesa, sembrava di imbrogliare, di barare ed essere disonesti. Però per me allenarmi tutti i pomeriggi in cava, come avevo visto fare al Sergio quella volta, quel pomeriggio di quel giorno, era diventata la cosa più importante. La cosa più importante di tutte. La più importante della mia vita. Allenarsi.

Ho quasi finito, tranquilli, portate pazienza ancora due minuti, anche perché poi finiscono le nuvole. E’ un casino, restare senza nuvole. Una volta dopo un po’ di anni, ero lì in cava con degli altri ragazzi di Nembro a fare i traversi – allora non c’erano le vie - e gli raccontai di quella storia del Sergio, della Ami8 della prima volta che lo avevo incontrato e di come quel giorno faceva bene, con stile, i traversi e che portava sempre le scarpe senza calzini e uno di loro mi disse “Lo sai che il Sergio per allenamento fa il Selvino con la bici in meno di mezz’ora? Piazza della Chiesa di Nembro-Fontanella di Selvino”. In mezz’ora. Io non l’avevo mica mai fatto fino ad allora Selvino in bici, facevo Bergamo – Cava - Bergamo tutti i giorni ma la salita di Selvino non lo avevo mai fatta. Allora un giorno un po’ di tempo dopo, per vedere se ero sulla strada giusta per diventare un bravo alpinista ho provato a farlo il Selvino, prendendo il tempo. Per verificare, così, per vedere. Adesso: io spero che non fosse vera quella storia che Sergio ci metteva meno di mezz’ora a fare Piazza della Chiesa - Fontanella e che fosse soltanto una leggenda metropolitana quella, una leggenda da bar del paese, perché io quel giorno lì quando sono andato la prima volta su per provare Selvino ci avevo messo 48’. A farlo in meno di mezz’ora ci ho messo penso una decina di anni di allenamento, un sacco di fatica e un sacco di tentativi. Fare il Selvino in 30’ è dura, chi va in bici lo sa. Il mio record personale adesso è di 28’08”, l’ho fatto due anni fa, ma ho sputato sangue per riuscirci, allenandomi tutti i giorni solo con quella idea strampalata in testa di battere il Sergio. Mi sono fatto tirare in scia per metà salita da due miei soci, poi alla fine sono scattato da solo. Ho dato tutto, proprio. Però, voglio dire, se mi fossi visto uno con i pantaloni di cotone verdi arrotolati al polpaccio e la maglia rossa passarmi davanti, o anche solo riuscire a tenermi la ruota per un pezzo – perché il Sergio con i pantaloncini aderenti e la maglia da bici proprio non riesco a immaginarmelo -  un po’ mi sarebbero proprio girate le scatole, sportivamente parlando. Un bel po’. Quello che volevo dirvi e poi ho finito è che uno nella vita ad un certo punto ha bisogno di esempi, di stimoli, di imprese, di persone con cui confrontarsi, anche segretamente e silenziosamente, anche stupidamente. Ecco, il Sergio per me è stato, è, e rimarrà sempre il mio termine di paragone, il termometro del mio alpinismo, sia per quanto riguarda la performance sportiva sia per quanto riguarda la polivalenza e soprattutto, per quanto riguarda la modestia. Io spero in qualche modo di potere rappresentare per un giovane, per un ragazzo o per un ragazza che ha voglia di fare della montagna o dello sci o dello sport la propria vita, quello che Sergio ha rappresentato per me nella mia, di vita. Un riferimento assoluto. Silenzioso. Mi sarebbe piaciuto diglielo una volta, al Sergio queste cose, ma non ho mai avuto occasione. Non ho mai avuto il coraggio. Comunque magari stasera qui c’è un ragazzino giovane seduto in ultima fila che è venuto in bici. Uno che sente in tasca le mani tutte spellate perché oggi è andato in cava o a Valgua ad arrampicare e che tra qualche giorno o tra qualche settimana andrà in bici a provare Selvino per vedere se riesce a farlo in meno di 30’ o in meno di  28’ e 08”. Speriamo. Magari, c’è.


   Va bene, adesso guardiamoci il video del Denali, poi nel caso alla fine vi dico un po’ di quello che abbiamo fatto io e i miei amici al Denali. Intanto Grazie. Grazie di quello che mi avete lasciato raccontare del Sergio. Un ricordo. Ci tenevo.


Vai con il video, prego.

> parte il video The Denali Experiment.

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