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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Giorgio Daidola


ELOGIO DELLA FUGA (E DELLA LENTEZZA)

Ci sono opere che in un numero ridotto di pagine, dicono “tutto”. Una di queste è stata per me “Elogio della fuga” del biologo francese Henry Laborit.(1) Chi ha le idee chiare ed è un uomo di scienza come Laborit non ha bisogno di migliaia di pagine per esprimerle. Il libro io l’ho scoperto molti anni fa’ per caso e l’ho letto in una notte, pur appartenendo a quella categoria di individui che sono lentissimi nel leggere, che impiegano mesi o anni  per arrivare alla fine di un libro. O che non hanno mai terminato di leggere Ulisse di Joice (che pure è un’opera esemplare sulla fuga intesa  come esilio volontario e come eterno pellegrinare).   A proposito di lentezza (non solo nel leggere), un altro dei miei libri favoriti è “La scoperta della lentezza” di Sten Nadolny.(2) Il protagonista del libro di Nadolny è nientemeno che  l’ammiraglio John Franklin, un uomo considerato “lento” nel capire  fin da piccolo ma  che, proprio grazie alla lentezza unita ad una intelligenza superiore visse avventure straordinarie, fino a scoprire il famoso passaggio a nord ovest.

Combinando il pensiero di Laborit con quello di Nadolny, ne risulta il concetto a me molto caro di  “fuga lenta”, che non è una moda elitaria ma uno stile di vita che si contrappone all’atteggiamento frenetico (proiettato allo sviluppo senza fine di ogni cosa) che domina oggi il mondo. La scoperta della “fuga lenta” ha influenzato profondamente la mia vita, sempre in bilico fra una normalità da professore universitario e una straordinarietà da fuggiasco viaggiatore fra le montagne ed i mari del mondo. La “fuga lenta” è infatti insita nel desiderio mai sazio di scoperta e di esplorazione, che poi altro non è che una ricerca di libertà e di beatitudine fra le grandiosità della natura, senza negarsi rapporti umani autentici. La “fuga lenta” offre sensazioni uniche ed inconfondibili, che spesso sono, paradossalmente, velocissime. Sono sensazioni che non si possono descrivere, salvo dire che offrono  il sapore di esistere.   

Ritornando al volumetto di Laborit, fra le tante verità in esso contenute, due mi sono rimaste impresse nella mente per tanti anni, e ciò significa che sono particolarmente importanti.

La prima  è che l’animale, di fronte al pericolo fugge, e così dovrebbe fare l’uomo, seguendo il suo istinto. L’uomo invece, spinto dalle ideologie e dalla morale creata da altri uomini, affronta il pericolo, alla ricerca di  un’affermazione o gratificazione della sua “prigione sociale”.  Nasce così il mito dell’eroe. Ma il vero eroe secondo Laborit non è chi si comporta in questo modo innaturale ma  chi fugge come gli altri animali, misurandosi con mezzi leali con la natura.

La seconda è che quando si mettono troppi animali della stessa specie in uno spazio ristretto essi diventano violenti, aggressivi, uccidendosi l’un l’altro. Non ci vuole molto a capire che è meglio fuggire da simili ghetti. E non ci vuole molta fantasia per vederne una chiara applicazione nel destino di un’umanità afflitta da un sovraffollamento spaventoso. Da 1 a 6,5 miliardi negli ultimi cento anni, + 20% di individui negli ultimi 10 anni del secolo scorso. Sono dati prepoccupanti che dovrebbero far riflettere. Un sovraffollamento di tali dimensioni è infatti la  causa prima del degrado ambientale, dell’inquinamento e dell’effetto serra. L’attenzione dei governanti di qualsiasi sponda e di ambientalisti sempre più affetti da gravi forme di miopia si concentra invece sullo sviluppo della tecnologia e sull’aumento dei consumi  come cause del degrado, dimenticando come a monte di questo problema ci sia quello dell’insostenibilità demografica, una vera bomba destinata a cambiare presto le sorti di questo mondo sempre più piccolo. Se la popolazione continuerà ad aumentare la fuga diventerà pura utopia ed il futuro dell’umanità sarà paragonabile ad un naufragio collettivo in un mondo ridotto ad un oceano di immondizie.  Nessuno dei potenti sembra preoccuparsi di questa catastrofe imminente in quanto non interessa il breve termine, ovvero le loro strategie elettorali.  Nei paesi ricchi per rastrellare voti si arriva addirittura a distribuire sussidi a chi fa  figli, come antidoto ai gruppi sociali più prolifici dei paesi poveri e per evitare l’invecchiamento della popolazione, contribuendo così al sovraffollamento globale. Di fronte a questa drammatica situazione frutto dell’ingordigia e della dilagante  stupidità umana, l’alternativa ad una ridicola esistenza da ribelle perdente alla Don Chisciotte  è quella di fuggire, alla ricerca istintuale degli ultimi spazi liberi, dell’ultima utopia.

La fuga derivante dalla prima delle tesi-verità di Laborit non ha necessariamente conseguenze distruttive  e si fonde perfettamente con la voglia di viaggiare, di conoscere, di scoprire che si ritrova in ogni epoca storica, a prova del fatto che non si tratta di una moda e nemmeno di un fenomeno tipico dell’ultimo secolo. La fuga dalla propria realtà motivata dal desiderio di conoscere prevede infatti di norma un “ritorno” nella stessa, ricchi di un bagaglio di esperienze per sé e per gli altri. Ogni fuga di questo tipo è “un privilegio della vita. Chi sa viverlo bene ritorna diverso” scrive il navigatore Gèrard Janichon nel volume “Voyages sans escale”(3). Si tratta di un tipo di fuga che è utile al sistema, che può anche essere il frutto di una dissidenza concordata con il sistema stesso..

La stessa cosa non si può dire per la seconda verità di Laborit, ossia per la fuga dal degrado raggiunto dl nostro pianeta. In questo caso la  fuga diventa una ricerca disperata delle proprie origini, dell’uomo primitivo che è in noi, attraverso un rifiuto definitivo della cultura e dell’aria avvelenata  della cosiddetta civiltà industriale con tutte le sue regole, prima fra tutte il desiderio ossessivo di “benessere” e quello di  “sicurezza” ad ogni costo.

Si tratta in questo caso di una fuga mistica, di un suicidio più o meno inconscio, come quello di Christopher McCandles, il giovane  protagonista del volume “Nelle terre estreme” di John Krakauer (4), da cui è stato tratto il film “Into the wild” di Sean Penn.

La fuga di McCandles  è un ritorno ossessivo alle proprie origini, mosso da un idealismo che ha del fanatico e del distruttivo, simile a quello di certi estremismi religiosi. Fughe di questo tipo sono il frutto di un fanatismo devastante per se e per gli altri, senza alcuna speranza di gratificazione e di migliorare il mondo attraverso il proprio gesto. Chi fugge in questo modo diventa un parassita sociale, uno che non si vergogna di sopravvivere alle spalle degli altri, di uccidere animali per dimostrare a se stesso di essere capace di procurarsi il cibo, di utilizzare per la propria fuga gli strumenti tipici della civiltà che si nega, dalle auto, ai treni, alle strade. Per di più i rischi dell’ambiente selvaggio vengono affrontati  senza preparazione alcuna , con la stoltezza e la superficialità tipica di chi arriva da un modo di vivere da salotto borghese e si iscrive ad un corso breve di survival.  Fughe di questo tipo hanno ben poco a che vedere con l’ascetismo dei sadhu indiani che contemplano il mondo immobili nella posizione del loto, il corpo coperto di cenere, i capelli impastati di sterco di vacca. Il nostro Mc Candles non è un pellegrino errante che macina chilometri a piedi, erede per scelta di una tradizione millenaria. E’ solo un cattivo esempio per tanti giovani d’oggi, desiderosi di uscire dai ghetti delle regole e delle sicurezze ad ogni costo, che in questo modo si sentono attirati dal sacrificare tutto, dal distruggere tutto, compreso se stessi. Immolarsi di fronte alla grandiosità della natura come Christopher Mc Candles  è senz’altro  più nobile che farsi scoppiare con un autobomba in mezzo ad un supermercato ma a ben vedere il risultato finale non è molto diverso.

Molto diverso invece è il significato della fuga implicita nelle imprese dei grandi esploratori, che spesso pagarono con la morte la loro scelta di vita.

Anche lo svedese Andrée, che nel 1897 tentò di arrivare per primo al Polo Nord utilizzando un pallone aerostatico, anche Scott che giunse  al Polo Sud nel 1911, cinque settimane dopo Amundsen, anche Mallory ed Irvine che scomparvero sull’Everest mentre ne tentavano la salita senza ossigeno del 1924, anche l’ammiraglio John Franklin protagonista di “ La scoperta della lentezza”, sono tutti morti come Mc Candles nella grande natura. Essi sono morti però nel tentativo di compiere grandi imprese, di andare oltre i limiti del conosciuto. Le loro fughe dalla normalità si sono concluse tragicamente perché sono stati sfortunati, perché hanno accettato fino in fondo il rischio come componente essenziale della fuga e dell’avventura. Con riferimento al suo folle progetto di arrivare al Polo Nord con un pallone aerostatico Andrée diceva: “Pericoloso? Forse. Ma che cosa valgo io?”(5)  Altri come Shackleton con il suo capitano Worsley ce l’hanno fatta, sono tornati grazie alla  bravura, al  coraggio, alla  voglia di sopravvivere. Ma anche grazie ad un pizzico, o forse qualcosa di più, di fortuna. Tutti, vincitori e vinti, sono veri eroi fuggiti da una vita qualunque.   Dai diari ritrovati di André e di Scott, scritti nella sicurezza della fine, emerge forte il desiderio di ritornare, di battersi per ritornare a casa, “non fosse altro che per il gusto di andarsene via” nuovamente(6).

Mentre  leggendo i diari di Andrée, di Scott, di Shackleton provo una senzazione di profonda commozione e di ammirazione per questi uomini in fuga, la storia di McCandles mi rattrista e basta, in quanto è il risultato di una fuga distruttiva negli obiettivi, una sorta di antipasto della fine probabile della storia di questa umanità, con tutti i suoi errori e tutte le sue contraddizioni. Un’umanità di cui , ci piaccia o meno, facciamo parte e che continua ad offrirci la straordinaria possibilità di poter fuggire “a tempo” dalla civiltà delle regole, alla ricerca di un modo di vivere appassionato, creativo, sobrio ed intelligente,  senza l’assurda pretesa di eliminare i rischi che, anche oggi, ogni vera avventura comporta.



  

(1) Henri Laborit, Elogio della fuga, Oscar saggi Mondatori, Milano 1997

(2)Sten  Nadolny, La scoperta della lentezza, Garzanti, Milano 1985

(3) Gerard Janicon, Voyage sans escale, Mursia, Milano ….

(4) John Krakauer, Nelle terre estreme,……

(5) Il libro di Andrèe, Con l’”Aquila” verso il Polo, A. Mondatori Editore, 1930, p.8

(6) Cesare Pavese, La luna ed i falò, Torino, Einaudi, 1950, p.9

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