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GIOCHI DI SCRITTURA E MONTAGNE

Maurizio Oviglia


AMERICAN GRAFFITI - LA VEDAUVOO SARDA

Bruno è stato uno dei primi arrampicatori della Sardegna. Aveva cominciato negli anni settanta, dopo che alcuni finanzieri scesi da Predazzo avevano salito le alte montagne calcaree di Oliena e ne avevano scritto un resoconto sulla rivista del Club Alpino Italiano. In quegli anni tutti erano convinti che in Sardegna non ci fossero montagne, nè tanto meno rocce su cui arrampicare. Vedere quelle foto di pareti quasi dolomitiche, seppure sfocate dal retino grossolano della tipografia, era stata una sorpresa per la comunità nazionale. Ma per la maggioranza la notizia era rimasta semplice curiosità, salvo che per i pochi alpinisti continentali stanchi delle Alpi e desiderosi di novità. Bruno invece aveva preso casa a due chilometri dal mare, sul bordo di uno stagno dove volavano stormi di fenicotteri, ma amava la montagna, e non gli era certo sfuggito quell’articolo. Dopo le prime esperienze era presto diventato istruttore ed aveva cominciato ad organizzare all’interno del CAI un piccolo gruppo di arrampicatori. Lì infatti l’avevo conosciuto, pochi giorni dopo aver messo piede sull’isola, lì aveva per primo risposto alla mia domanda se ci fosse o meno qualcuno libero per andare ad arrampicare.

Le pareti sarde erano piccoli castelli di pietra persi in boschi impenetrabili e trafficati solo da cinghiali, ma Bruno possedeva una vecchia Opel in grado di percorrere ogni tipo di strada sterrata che potesse in qualche modo avvicinarci ad esse. A volte, inevitabilmente, il fondo della macchina toccava qualche pietra e Bruno si disperava come se la cosa fosse una maledizione divina.

Quando andammo ad arrampicare per la prima volta insieme, a Domusnovas, aprimmo subito una via che battezzammo Nuages, dove passammo in un buco che attraversava la montagna e ci aveva permesso di raggiungere la cima. Avevamo lasciato dei chiodi nuovi che mi sembravano sprecati, su una via che forse mai nessuno avrebbe ripetuto. Ma i chiodi erano suoi e Bruno aveva insistito per lasciarli...

Bruno aveva una cantina piena di materiale e la cosa, per me che ero abituato a salire con chiodi vecchi e ritorti recuperati dalle vie e con corde che sembravano oramai code di gatto, mi sembrava un autentico sogno. Possedeva chiodi lucenti che non avresti mai voluto piantare, corde pulite, nut e friend senza un graffio. Per circa otto mesi usai quelle corde, consumai quei friend, piegai il cavetto dei suoi nut. Ma imparai a lasciare i chiodi per quelli che sarebbero venuti dopo, Bruno mi insegnò che l’alpinismo non è solo un atto di egoismo, che il materiale è solo lo strumento che ci permette di vivere belle avventure... ma soprattutto mi offrì la sua amicizia e mi mostrò i segreti della sua isola. L’unica cosa che dovevo fare era guardare la parete, individuare una possibile linea, salirla e farne poi un disegno e una relazione... praticamente le uniche cose che sapessi fare allora.

Poi, purtroppo per lui, mi presentò la sua allieva migliore, Cecilia, di cui mi innamorai… e Mondo, l’arrampicatore più entusiasta che avessi conosciuto, che divenne il mio migliore amico.


Mondo era uno scalatore tra i più capaci dell’isola. Insegnante di ginnastica, possedeva una mentalità positiva ed entusiasta. Alto e magro con una piccola barbetta, sembrava un personaggio appena uscito da qualche fumetto. Amava l’esplorazione, come quasi tutti gli arrampicatori di quegli anni, ed aveva scoperto molte pareti del cagliaritano girando tra i boschi con la sua cinquecento. Apriva ogni genere di vie, lunghe o corte che fossero, di libera ed artificiale; era stato uno dei primi, forse il primo, ad usare gli spit in Sardegna, il pioniere dell’arrampicata sportiva. Le sue vie avevano nomi surreali che facevano galoppare lontano la fantasia o citavano personaggi della letteratura fantastica.

Aprimmo una prima via insieme a Gutturu Pala, una gola da lui scoperta, scendendo a notte fonda. Il buio ci impediva di distinguere i colori delle corde e non sapevamo più quale fosse la corda della doppia da recuperare. Ridemmo a lungo della circostanza, che la via finì per chiamarsi Effetto Notte! Poi firmammo la celeberrima placca di Supergulp a Masua, oggi emblema dell’arrampicata su uno dei calcari più belli del mondo, ennesimo rimando al mondo dei fumetti. Ma il ricordo più indelebile fu quando, sugli scogli di Masua, gonfiammo con la bocca un piccolo canotto per bambini e, remando con le mani, coprimmo il piccolo braccio di mare che ci separava dall’attacco di Pan di sale, la famosa e irripetuta via di Marco Bernardi. Il piccolo canotto, legato agli scogli, si agitava accompagnando il tempo del mio respiro nel temibile diedro di VII grado, tratto chiave della via. La polvere di sale si mischiava al sudore, i friend “ballavano” nelle fessure svasate, la firma del grande Marco Bernardi mi seccava la gola. Riguadagnando terra, in uno splendido tramonto, ci giurammo in silenzio fedeltà assoluta e ci confidammo a vicenda i nostri sogni di California e Yosemite Valley. Era fatta, la vita aveva unito le nostre strade, a settembre saremmo finalmente partiti per l’America per salire insieme le mitiche vie del Capitan.

Non partimmo mai, tra di noi si mise di traverso il destino. Prima che potessimo realizzare i nostri progetti, Mondo non era più su questa terra: una febbre subdola e maligna sbiancò la sua pelle e gli rubò a poco a poco le forze. Di lui, oltre ai ricordi e alle sue vie, mi resta solo una cartolina con un fumetto spedita da Parigi, dalla foresta di Fontainebleau, dove stanco e malato, attendeva le sedute di chemioterapia. Sul retro c’è scritto: “Vieni a vedere, qui fanno cose da pazzi!”.


Cecilia aveva invece iniziato a scalare con Bruno ed aveva arrampicato con tutti i cagliaritani della prima ora. Fin da piccola aveva provato ad arrampicare in Dolomiti con la guida alpina ed aveva una grinta che mi aveva subito colpito. Per molti a quei tempi il VI grado rappresentava un limite o semplicemente una chimera, Cecilia era riuscita a salire il V+ con le scarpe da ginnastica e al primo colpo, mostrando da subito una volontà di riuscire fuori dal comune che non mancava di suscitare invidie tra i colleghi maschi.

Studentessa in medicina, divideva i suoi giorni tra la roccia e l’università. China sui libri, aspettava probabilmente la chiamata di Bruno o di Mondo e la possibilità di vivere un’ennesima piccola avventura, rimandando di un poco gli esami.


Il Garibaldi l’avevano così chiamato perché di profilo sembrava veramente il grande eroe dell’ottocento. Era in realtà una roccia granitica posta tra le foreste del Sàrrabus, poco ad ovest di Cagliari. Ci si arrivava con un sentiero semichiuso dalla vegetazione di corbezzolo, ma ad un certo punto occorreva abbandonarlo ed inoltrarsi in un’intricata foresta di rami, sino a raggiungere le rocce. Quando riuscii a toccare il granito si spalancò verso il cielo una liscia parete verticale. Era incisa da un’unica fessura slabbrata e tonda.

Bruno mi informò che altri avevano tentato di salirla, senza riuscire... e capii che mi stava provocando, istigandomi a compiere un piccolo delitto, proponendo cioè di “rubare” la via ai concorrenti, che probabilmente ben conosceva. Teneva molto a realizzare delle vie nuove con me, forse perchè in quel momento era stato un po’ messo da parte nell’ambiente cagliaritano da quelli che un tempo erano stati i suoi stessi allievi. Per lui era come una rivalsa. Io sapevo ben poco di Bruno e dei rapporti tra gli arrampicatori locali... così, con aria complice e a cuor leggero, accettai la provocazione.

Il granito sardo però non era certo quello del Monte Bianco e nemmeno quello della Valle dell’Orco! Fuori dalle fessure nessun appoggio o gradino offriva un valido sollievo, la scarpetta scivolava spesso sul lichene, quasi onnipresente e assai insidioso. D’altra parte le fessure erano rudi ed esigenti, non concedevano tregua. Avevo appreso i segreti della tecnica ad incastro al fronte, in uno dei santuari europei dell’arrampicata granitica, ma sulle fessure del Garibaldi ciò non era abbastanza e mi trovai veramente a mal partito. Fui costretto sfoderare la mia tecnica di artificiale per passare. Bruno possedeva i friend più grandi in circolazione sul mercato europeo, ma la fessura era grande pure per loro. Col cuore in gola, sopra quel friend ballerino strisciai in libera in una dura off-widh. Mi sembrava ad ogni istante di scivolare verso il basso ma riuscii ugualmente a guadagnare centimetri sino ad una grande nicchia ad X. Sopra di me un’orribile fessura svasata mi aspettava con ghigno malefico. Ingaggiai una battaglia di più di un’ora nella fessura diagonale e, dopo aver consumato tutti i friend e con le mani oramai sanguinanti, fui costretto nuovamente all’artif su un solo chiodo, di quella che si stava rivelando una durissima salita.

Alla fine delle difficoltà mi calai per provare in libera il tiro e passai... per quel giorno poteva veramente bastare.


Le ferite alle mani guarirono in dieci giorni ma passarono quattro mesi perchè maturasse nuovamente in me la voglia di tentare qualcosa di simile. Nel frattempo tante cose erano successe e la Opel di Bruno sempre più spesso veniva sostituita dalla cinquecento di Mondo o dalla 128 di Cecilia.

Con la cinquecento scassata e crepata sul fondo, tanto che non si poteva nemmeno prendere una pozzanghera senza bagnarsi i piedi, dopo 17 km di pista, raggiungemmo l’altopiano dei Sette Fratelli, in una zona completamente sperduta; dal bosco emergeva un’enorme campana di roccia denominata dai locali Su casteddu de su dinai. Sul “castello del denaro” saliva una sola via aperta dallo stesso Mondo, che era stata significativamente battezzata “Anche gli eroi hanno paura”. Sul lato ovest ci sorridevano con aria di sfida una serie di ostiche fessure, Cecilia e Mondo mi guardavano perplessi, aspettando un mio cenno di attacco.

Preparai i friend all’imbrago ed aggredii con ferocia la prima fessura, subito rude e difficile, mentre i miei amici stavano in religioso silenzio ad osservarmi, quasi fosse un rito pagano.

Il passaggio che difendeva l’accesso al secondo tiro e permetteva di lasciare l’ennesima croce formata da due fessure svasate mi impegnò allo stremo e mi costrinse al riposo su un friend per raccogliere le energie mentali; quindi arrancai per la restante parte della giornata, metro per metro in quelle terribili fessure, verso la cima di quell’incubo.

Francamente ne avevo abbastanza della campana di granito come del Garibaldi, quindi lasciai a queste rocce un cordiale arrivederci...

Ritornai a settembre con Roberto, venuto apposta da Torino per conoscere le mie croci e delizie. Dopo la libera di Anche gli eroi hanno paura come aperitivo, attaccammo American Graffiti e riuscimmo a salire interamente in libera quella che probabilmente era la via granitica più dura dell’isola. Erano solo settanta metri, in grado però di lasciare segni indelebili sulle mani, oltre che nel cuore. Ma il dolore dei graffi sulle mani non faceva così male... al contrario ci portava lontano, sulle pareti americane di Yosemite, che per me e per Mondo sarebbero rimaste purtroppo solo un sogno...

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